Ho avuto modo, presiedendo una commissione di liceo in questi ultimi esami di maturità 2022, di prendere atto – come temevo in realtà – delle incongruenze dell’insegnamento di “educazione civica”. Si riscontra, per farla breve, che ogni docente – poiché la materia è trasversale, si dice – svolge alcuni argomenti collegati. Per cui l’insegnante di Informatica tratta della netiquette digitale, il docente di Storia dell’arte della tutela dei beni culturali, taluni altri trattano argomenti legati ai diritti: delle donne, dell’immigrato ecc. Tutto legittimo e tutto positivo ma questo modo accade per l’educazione civica – ma per il sapere in generale – quel che Leibniz rappresentava nell’immagine del mulino. Scriveva il filosofo (siamo nel 1714):
“… si deve riconoscere che la percezione, e quel che ne dipende, è inesplicabile mediante ragioni meccaniche, cioè mediante le figure e i movimenti. Immaginiamo una macchina strutturata in modo tale che sia capace di pensare, di sentire, di avere percezioni; supponiamola ora ingrandita, con le stesse proporzioni, in modo che vi si possa entrare come in un mulino. Fatto ciò, visitando la macchina al suo interno, troveremo sempre e soltanto pezzi che si spingono a vicenda, ma nulla che sia in grado di spiegare una percezione”. [Monadologia, par. 17].
Era la soggettività il problema del filosofo. Come si poteva saltare dalle «parti che si spingono reciprocamente» all’esperienza soggettiva di una percezione? Come possono dei neuroni che si influenzano reciprocamente trasformarsi nella consapevolezza interna di una visione? Come può la materia divisibile generare l’unità dell’io individuale di cui ognuno ha coscienza?
Riportando il paradosso di Leibniz al nostro contesto, si può dire che come la percezione è qualcosa di più che non si esaurisce nell’accostamento di ingranaggi “mentali”, allo stesso modo l’assunzione di una prospettiva civica, di una formazione civica è qualcosa che va al di là e oltre l’acquisizione di elementi, di nozioni, di comportamenti. Non si tratta soltanto di trasferire ai nostri allievi comportamenti da assumere a tavola, per strada, negli stadi, negli ambienti di lavoro, nella comunicazione digitale, nei confronti delle donne, dei diversi, degli stranieri. Non si tratta neanche di far imparare a memoria gli articoli della Costituzione.
L’educazione civica è qualcosa di più. Fermo restando che è doveroso riconoscere l’aspetto positivo del nuovo indirizzo ministeriale che assegna grande importanza all’educazione civica riservando ad essa anche uno spazio rilevante nell’esame di stato.Tanto più oggi che le religioni stanno mostrando i loro limiti, cioè quell’incapacità di essere autenticamente “universali” (cattoliche davvero) per diventare, invece, tra le principali ragioni dello scontro tra i popoli, per quell’isteria dei principi inalienabili a cui sono legate e che si traducono nell’esclusione dell’oppositore e del diverso, nella creazione del “nemico”.
Da ultimo noi assistiamo in questi giorni – ma sarebbe più giusto dire: in questi ultimi decenni – alla degenerazione civica di una classe politica che non ha più vergogna. Una classe politica che si sceglie da sola, che non ha avuto dubbi nel buttare a mare una gestione che stava togliendo il paese da un mare di guai per via di una frenesia: al voto, al voto! Per capitalizzare un vantaggio che i sondaggi dichiarano evidente. La crisi di governo e la campagna elettorale a cui stiamo assistendo mostrano in maniera lampante come la scuola abbia trascurato il proprio compito principale, cioè quello di formare uomini e cittadini guidati da coscienze critiche, abituate a soppesare l’interesse generale, ad argomentare in modo rigoroso. “Tornare al voto”, “la parola ai cittadini” sono gli slogan di una classe che persegue il proprio interesse legato all’incarico e ai benefici collegati, che espone argomenti in maniera parziale e faziosa, fedele al particulare del gruppo politico che rappresenta, incurante del dato di fondo di ciò che è più utile alla comunità, incurante del rigore, della logica, della consequenzialità.
All’ultimo esame di stato ho chiesto ad una alunna se conoscesse don Lorenzo Milani. A una – quasi scontata – risposta negativa, ho illustrato brevemente la figura di questo prete dalla lingua tagliente e dalla cultura formidabile, per chiedere: perché, secondo te, un prete confinato in una parrocchia di montagna va a prendersi questi alunni nei boschi, liberandoli da una vita destinata a pascolare le capre o a stare nelle stalle con le vacche? Perché dunque un prete si dedica a insegnare, prima ancora del catechismo e dei fondamentali del credo cattolico, l’educazione civica ? Obbligando gli alunni, partendo dalla lettura dei giornali, a prendere consapevolezza dei propri diritti di uomo, prima ancora di fare il cristiano?
E’ forse la stessa domanda a cui dobbiamo rispondere formulando i nostri programmi sull’educazione civica. Perché è la totalità dell’uomo e del cittadino che dobbiamo formare, non semplicemente favorire comportamenti “educati”.