Siamo qui: Vasco Rossi, la filosofia, i no pass e le responsabilità della scuola

Non ho mai avuto una predilezione per la musica di Vasco Rossi. Canzonette divertenti, buone da ascoltare come sottofondo per qualche occupazione o distrattamente durante un viaggio. Ma l’ultima di Vasco è certamente una canzone che tocca temi filosofici. Lo lascia intendere, ma basta ascoltare: siamo qui, pieni di guai. Certo l’esordio non è dei migliori: sembrerebbe una versione semplificata, nazional popolare si potrebbe dire, dell’essere gettato nel mondo, della condizione umana, secondo Heidegger. Dico Heidegger perché Vasco stesso richiama le recenti letture heideggeriane, durante la pandemia, che lo avrebbero ispirato.

Il verso che segue è senz’altro migliore e tocca il tema dell’essere, così caro al filosofo tedesco. Siamo qui… a nascondere quello che sei dentro quello che hai. Allude qui a quello spreco di verità, nascosta e dimenticata, che si disperde nei mille risvolti dell’avere, del possedere, del rincorrere ostinato e senza posa, del chiacchierare futile e superficiale, che rappresentano la cifra di molta, per non dire dell’intera società contemporanea. E poi aggiunge: siamo qui soli e delusi a confondere quello che sei dentro quello che usi. Non so sia stata l’esigenza della rima a partorire quell’usi, ma certo è che qui, nel linguaggio spigoloso e immediato del rock, Vasco coglie il centro del pensiero del filosofo che condanna quella dimensione distorta del vivere umano che assume il potere al posto dell’amore, il disporre al posto del dedicarsi. Che stabilisce il primato del fare produttivo, dell’usare dispotico che introduce all’uomo padrone, piuttosto che al pastore che si prende cura (dell’essere) e che è all’origine – secondo Heidegger – di una vita inautentica, così dell’industrializzazione dell’agricoltura, come anche dell’abisso inenarrabile di ciò che è accaduto ad Auschwitz.

Vasco Rossi non è nuovo a queste uscite filosofiche. A molti potrà sembrare pretenzioso ma a me sinceramente fa simpatia. E se penso che quest’uomo – cresciuto ad “Alan Ford” e “Topolino”, come lui stesso racconta – ad un certo punto è condotto dalla sua inquietudine e dai misteriosi accadimenti del vivere ad incontrare Nietzsche, la simpatia si fa tenerezza, insieme a un ammirato stupore.

In Dannate nuvole Vasco scrive Quando mi sento di dire la verità / Sono confuso non son sicuro / Quando mi viene in mente / Che non esiste niente / Solo del fumo, niente di vero che sembra la versione pop di Verità e menzogna in senso extramorale del primo Nietzsche.

Non so perché Vasco abbia tratto dal testo di Nietzsche questo riferimento alle nuvole dannate forse perché il filosofo scrive: Ho in fastidio le nubi erranti, questi furtivi gatti di rapina … Noi aborriamo queste mezzane e queste intruse, queste ambigue creature che non sanno nè benedire, né cordialmente maledire. O forse perché le nuvole sono immagini della vita, così incerte e instabili, ambigue e inconsistenti, che generano fantasmi in chi le guarda. Spaventevoli quando ci travolgono con i venti, oppure quando ci sovrastano grigie come un’oppressione o quando si accompagnano al nostro tormento, planando minacciose, come sui campi di grano di Vincent.

Ma tornando all’ultima canzone, Vasco Rossi scrive: ma com’è, ma cos’è, ma dov’è e sono le domande che ci accompagnano. Che a malapena riusciamo a formulare; che non hanno risposta e che anzi appaiono insensate nel loro stesso essere poste (secondo il Positivismo) ma, proprio in quella forma indistinta, generica e quasi larvale, sono domande che sgorgano spontaneamente come un fiume carsico; sono domande che rinviano a quell’indicibile di cui non si può parlare, che va oltre ogni risposta che la scienza può darci, ma che non possono essere trattenute e alle quali non sappiamo sottrarci.

Vasco Rossi è nato nell’Emilia contadina e operaia; nella sua giovinezza ha rischiato di diventare un teppistello, fatto di droga. La fortuna gli ha sorriso, sottraendolo al destino di una esistenza da sfaccendato al Roxi bar. Ma poi ha capito; ha letto Kierkegaard, la Recherche, Nietzsche, in pandemia ha letto Heidegger. Ma i meriti di Vasco non finiscono qui, in queste letture forse davvero un po’ spericolate, magari affrontate senza una guida e senza un retroterra di formazione specifica. Ma c’è il desiderio di capire e conoscere, e questo ha un valore incommensurabile, che deve toglierci quella puzza sotto il naso, quell’accondiscendenza verso il pop che molti hanno.

In un’intervista sul settimanale “Venerdì” di “Repubblica” del 12 novembre scorso Vasco Rossi dice, tra le altre cose, che tutti dovrebbero fare il Classico o lo Scientifico e che tutti dovrebbero studiare la filosofia e la sociologia. E allora la mia simpatia cresce ancor più. E quello che i ministri non capiscono, Vasco l’ha capito. Che in un percorso di formazione dell’uomo non si può rinunciare ad un curriculum filosofico, che la filosofia è indispensabile e necessaria per ogni crescita.

La filosofia è necessaria perché siamo desiderio – diceva ai suoi studenti Lyotard nel 1964. Perché la nostra presenza è costituita dall’assenza, perché siamo poveri e indigenti di senso, perché siamo la mezza mela che cerca disperatamente l’unità. Ma la filosofia è necessaria anche perché ci dà una forma mentis, perché la filosofia è la culla del pensiero scientifico.

Dunque la filosofia deve entrare nella formazione di chiunque (deve dircelo Vasco Rossi?). Anche perché la scuola ha oggi delle grandi responsabilità nella formazione del cittadino. Tanto più in questo contesto in cui, come si dice, le grandi narrazioni, politiche o religiose che siano, non hanno più così presa sulle persone e dunque la formazione al pensare (che deve affrancarsi dal modello di un pensare come un fare, dice Heidegger, per sintonizzarsi sull’essere) ha un ruolo ancor più importante e non può essere delegata a influencer, rapper o ai post sui media sociali.

La dimostrazione ce l’abbiamo sotto gli occhi in questi giorni turbati da una pandemia che sembrava vinta e che invece mostra ancora la sua virulenza. Ma non è della pandemia che voglio parlare quanto piuttosto della sua rappresentazione che dà luogo a una nuova malattia sociale: l’infodemia. Un sovraccarico del parlare a vuoto, basato sul sentito dire, un rincorrersi di notizie, di informazioni senza controlli, senza verifiche, senza attese. Un parlare in cui vince chi urla più forte, condito da insulti, che somigliano il mondo dei media ad uno stadio in cui opposte tifoserie si lanciano odi tribali. Allora è evidente che in questa società quel che fa difetto è proprio la capacità di pensare e di argomentare con ordine, precisione e onestà. Provate a pensare se queste persone, questi no pass, questi no vax e questi no mask, che oggi si agitano nelle piazze del paese e propagano focolai pandemici, che espongono argomenti strampalati, che discutono con le minacce, che vanno in giro portandosi da casa un cumulo di parole che non sono discorsi ma emozioni, pregiudizi, comprensioni parziali, dati distorti, accanimenti insensati. Provate a pensare se queste persone avessero potuto essere formate al rigore di un metodo, che ti insegna a scomporre i dati e i problemi nelle componenti e poi introduce al ricomporre coerente e alla verifica, enumerando con ordine per non tralasciare nulla (Cartesio), che è il fondamento di ogni teoria, di ogni pensare, ma che ti offre anche la consapevolezza che talvolta dalle intransigenze del metodo dobbiamo saper essere liberi (Feyerabend). Una formazione basata sull’ascolto, sulla consapevolezza che il linguaggio è pieno di inganni da cui dobbiamo affrancarci, che le parole vanno pulite, amate e trattate con delicatezza e con rigore (Wittgenstein); che non esistono fatti assoluti ma che i fatti sono sempre collegati ad un interprete (Nietzsche); che la scienza è progressiva e costruita sul confronto e sulla discussione (Popper). Se avessimo formato queste persone, se la scuola si fosse impegnata nella questione fondamentale del discernimento critico, forse oggi non avremo questi disordini e queste fumose polemiche, e tutti noi e i nostri malati e le persone fragili che amiamo e i nostri bambini specialmente, non correrebbero inutili pericoli.

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