I Colli Euganei. Per una identità storica e visiva del territorio euganeo

Contributo pubblicato nel volume Arquà Petrarca. Colli Euganei del fotografo Mario Lasalandra, edito da Vianello Libri nel 2005 col titolo “I Colli Euganei”.

L’immagine dell’isola – spesso usata dai poeti, ma anche dai geografi – è forse quella che meglio rappresenta la natura e l’identità dei Colli Euganei. Usciti fuori, infatti, per spinte vulcaniche dal grembo materno, questi umori del corpo terrestre fattisi collina ondulata, si offrono allo sguardo sin dalle pianure più lontane, come isole appuntite. E ancor più quando le nebbie immergono nel grigiore la terra, questo mare sembra infrangersi nelle valli che scendono dai versanti, ed essi paiono galleggiare solitari per offrirsi, gioiosi, al tiepido sole invernale.

Dall’alto essi paiono una rugosità della terra, una piega in un abito a lungo indossato che rivela a chi la percorre uno scrigno inaspettato di tesori, fatto di grumi di case sospese, di bianche chiesine, di filari ordinati.

Ma se la natura sembra averli generati, muniti di grazia e proporzione, per il piacere dello sguardo, la loro storia, come avviene per gli uomini, è fatta di dimore sontuose, di eremi solitari, ma anche di erti sentieri percorsi con affanno, di carri che vanno lenti ancor prima dell’alba, di pietre sottratte con fatica alla terra, tra polvere e sudore.

Tracce di questa storia sono rimaste nei nomi dei luoghi, che conservano, come rapprese alla loro stessa identità, i frammenti di un passato che li accompagna. Este – centro urbano dell’antica civiltà atestina che dai reperti si conosce come praticasse il rituale del simposio, edificasse santuari per il culto, producesse dei manufatti artistico-artigianali di grande pregio, come le situle. Monselice – per alcuni il monte della via selciata – che testimonia l’imporsi della dominazione romana, che tracciando strade e dividendo la terra in reticoli regolari, impose l’ager, il mondo orientato dalla cultura e dall’uomo che andava sostituendosi alla selvatichezza del bosco. Abano, che conserva nella radice venetica del nome, la consuetudine antichissima di condursi a queste terme, dove sorsero templi ed oracoli dettavano sentenze, in un paesaggio dal sapore magico, da dove salivano fumi e vapori, odori nauseanti e l’erba verdeggiava nonostante il fuoco e il calore. Il luogo acquisisce una dimensione sacra e salvifica e ad esso si recano malati provenienti da ogni dove – così ci dice il nome “Montegrotto” – per trovarvi ristoro.

Ancora i toponimi ci propongono frammenti di esperienze e ci danno il sapore ricco dei fatti umani. Vendevolo, ad esempio, che nasce dalla composizione dell’aggettivo gallico vendo-vindo, cioè bianco, che unito a pala, vetta, è un chiaro riferimento all’alta cima spruzzata di neve: cosicchè una emozione visiva, ed una apprensione insieme, trova la propria casa nel linguaggio. Perché le parole rincorrono i fatti e li vestono di colori, aggiungendovi quel di più che proviene dalle emozioni e dal sentire. E così in vegro, cioè incolto, e palù, cioè zona paludosa, si percepisce la rincorsa medioevale di terre da dissodare e coltivare per far fronte ad una fame mai sazia e in ronco si sente anche il rumore degli attrezzi che tagliano il bosco e creano terrazze e rasano le colline – che appaiono calve fino al Novecento inoltrato – per tormentarle con l’aratro e trarne un po’ di alimento.

Nel corso del Medioevo anche la regione euganea – per la strategica posizione e per la difendibilità che assicurava – vide moltiplicarsi le strutture militari, che in genere venivano erette sulle sommità dei monti o lungo le linee di confine. Si può dire che non c’è collina che non abbia avuto il suo castello, edificato con fatiche servili e corvées spietate, custodito da arruolamenti forzati e poi distrutto o abbandonato nella tragica altalena delle alleanze.

In un’altra storia, la solitudine collinare costituì una forte attrattiva per eremiti e religiosi. Così assistiamo al moltiplicarsi di insediamenti religiosi che irradiarono la propria influenza economica e spirituale in tutto il territorio circostante, dando esempio di santità, quando ancora spesso le chiese dei dintorni si trovavano in uno stato di disordine e sporcizia, spesso condotte da preti concubini e ignoranti. Oltre agli animi ascetici l’amenità del sito, finalmente libero dalle contaminazioni della città, fu uno degli elementi che alimentò il gusto del villeggiare in campagna; e se già in epoca medievale – secondo il cronista Giovanni da Nono – i colli risultano collegati con la più antica nobiltà padovana, fu specie in epoca romantica che questa impalpabile ricchezza del paesaggio fu il motivo per cui l’ambiente dei Colli divenne caro ai Padovani che ci convengono nella state e nell’autunno, scriveva il Mugna nel 1871. Perciò si può dire che questa attrazione sia stata una sorta di costante nella storia di questi monti, cacciati fuori dal seno della pianura “per variarne l’aspetto con una nota di allegria e delicata fantasia”. Sarà Alvise Cornaro – nel suo “Elogio della vita sobria” (1560), quando la pax veneziana aveva avvolto il territorio di un mantello sicuro che si stenderà per quattro secoli – a descrivere lo splendore della fioritura dicendo il piacere et lo solazzo di cui lo sguardo poteva godere, e l’immagine della soavità dell’aria e la temperia dei climi ben presto diverrà uno stereotipo.

E siccome i luoghi non sono solo spazio (senza differenze alcune) ma sono anche vissuti, e proprio come le case prendono odori e ricordano sapori, conservano memorie dell’infanzia e dei giochi protratti fino al limitare del buio, così troviamo traccia dei fatti degli uomini – la fatica di vivere, il piacere dell’amicizia e le gioie dell’amore – in quel grande patrimonio che sono le leggende e le tradizioni. Quelle ispirate al Medioevo ed ai suoi personaggi trasposti dalla storia nel mito: il feroce Ezzelino, il buon imperatore Enrico, la contadina divenuta contessa. Miti sepolti nelle voragini del tempo perchè non è più il tempo che Berta filava e una matassa di filo data in omaggio non rende più un feudo nella Contea di Montagnone. Leggende delicate come quella de el mazo – ascrivibile al ciclo del calendimaggio – in cui un macigno, posto davanti la piccola chiesa di Boccon, raccoglieva nelle screpolature e nei fori le violaciocche o le rose poste dagli innamorati che aspettavano in trepida attesa l’uscita dal rito delle ragazze, le quali, cogliendo il fiore, accettavano coram populo il pegno d’amore. Leggende, infine, legate al ciclo dell’orco dai mille travestimenti, del salvanèo dispettoso, delle fate e delle anguane che vivono nelle acque e che non hanno trovato un cantore appassionato (ad Arquà è stata raccolta una leggenda molto vicina a quella della Sirenetta di Andersen). Personaggi che hanno alimentato gli incubi dei bambini e le paure ancestrali di società ancora immerse nel mondo magico e dove nei luoghi si addensano storie e magie come la Busa del martarèo a Zovon dove apparivano streghe e orchi o la Crosaréta dée Strighe a Valsanzibio, o il Buso dée Fade a Monselice. O abitati dai briganti – il Buso dei briganti si trova sul fianco nord-occidentale del monte Cinto – fuggiti lassù per sottrarsi alla leva dopo che Napoleone volle imporre anche qui un nuovo ordine, con l’ora alla francese e gli alberi della libertà.

Ancora un pensiero, da ultimo, su queste miniature alpine, che sembrano uno scherzo gioioso della natura, un presepe dimenticato da un bambino distratto, e che forse proprio per questo imporsi sin dalle lagune, vivono una storia fatta di sguardi, e ci dicono la loro “verità” nelle percezioni che abbiamo di essi. Ed è interessante notare, ad esempio, come una sorta di selvatichezza resti ad essi come rappresa. Ancor oggi, infatti, sono “sentiti” in un alone che li pone nel segno dell’evasione o, comunque, di recessione alla fase primordiale dell’istinto e della libertà. Basti pensare agli innumerevoli passaggi reperibili nei documenti più disparati. E quante relazioni nelle visite pastorali, e quante cronache di processioni degenerate con sbaro di schioppi e bevute in cui si lamenta questa disponibilità ad ogni eccesso, questa ritrosia a camminare per i sentieri sicuri della vita cristiana e dei suoi comandamenti, che appartengono a quell’immaginario che anima questi luoghi come quelli sottratti ad ogni controllo, quasi una sorta di zona franca dove non valgono più le misure e le regole del vivere quotidiano. E dove ancor oggi si va per sottrarsi alla dieta, al grigiore dell’ufficio di città, allo stress del tempo che incombe (un tempo fattosi inumano, perché non più ritmato col crescere del grano o il lievitare del pane).

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