Maradona, Paolorossi, il calcio e la didattica della personanza per la Storia e la Filosofia

Forse perché avevo intenzione di preparare proprio quest’anno, l’ultimo del mio insegnamento, un progetto didattico incentrato sull’integrazione della Storia e della Filosofia con gli aspetti e le vicende del calcio nel corso del Novecento; forse perché osservavo da tempo come l’una nasca nell’abbraccio dell’altra, nelle domande e nelle inquietudini del mondo/storia, e come il calcio molto spesso si offrisse nel suo essere linguaggio – fatto dalla combinazione di “podemi”, diceva Pasolini – a rappresentare valori simbolici e articolare “discorsi”; forse è proprio per questa somma di ragioni che la scomparsa improvvisa di Diego Armando Maradona, e qualche giorno più tardi anche di Paolorossi (nel cui nome la erre funge da collante per unire mondi separati, come fa l’intuizione che connotava il suo giocare) non poteva non toccarmi da vicino.

Il progetto di costruire un canovaccio comune tra le discipline, distribuite lungo un filo di figure tratte dal calcio, dalle quali aprire finestre tematiche e viaggi tra le idee, in un alternarsi di rinvii tra la Storia e la Filosofia, si rivelò, alla fine, troppo ambizioso, problematico e costoso – in termini di pensieri, letture e studi, intendo. Ma ora mi pento di aver abbandonato quell’idea per essere assorbito, come tutti, nelle urgenze della pandemia in atto.

Vorrà dire che sarà il compito della pensione per scrivere un corso di didattica anarchica collegata alla fantasia, alla curiosa meraviglia, all’intuizione, a quell’osservare attento da cui nasce la teoria, che ha nel proprio cuore proprio il guardare mai sazio. Per costruire percorsi che ci consentano di uscire finalmente da quell’idea rachitica di scuola, separata da artificiali confini di un sapere impavido, fatto di scheletri e mummie, che non tolleravo in gioventù e oggi ancora non sopporto.

Ho sempre pensato che la formazione e il crescere dovesse essere qualcosa di spontaneo, ispirarsi al modello naturale del girovagare felice per i campi (del sapere) liberi di lasciarsi sorprendere; cercando i funghi nascosti tra le foglie, raccogliendo le more nelle siepi spinose, cercando le bisce vicino all’acqua e saltando i fossati dei confini, sostando a mirare le radici di un albero rovesciato (affascinato, come Vincent, dai paesaggi che solo i nostri occhi sanno costruire). Quasi la mia versione contadina del viaggio di Cartesio, anche lui nauseato della scuola e delle sue rinsecchite e contrastanti nozioni, per dedicarsi ad affrontare il gran libro del mondo, per apprendere dalle esperienze, dai costumi, dai cibi, incontrando parole e storie, non trascurando neppure l’umile tessitura delle colture nei campi.

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